Pubblicato in catalogo: Dritto e Rovescio
Amelia
2024
Negazione differente. Appunti sulla pittura di Lorenzo Modica
di Enrico Camprini
Era il 1974 quando, nell’attuale Fondazione Marconi a Milano, Renato Barilli organizzò una mostra intitolata La ripetizione differente, con evidente richiamo al celebre libro di Gilles Deleuze pubblicato in Italia tre anni prima. Premetto che il riferimento a questa mostra, da parte di chi scrive, è puramente strumentale: deriva principalmente da una certa fascinazione per il suo titolo, indipendente dal riferimento al testo del filosofo francese, e al suo presentarsi in forma quasi paradossale. Del resto, in prima battuta, attributi riconducibili all’idea di ripetizione possono essere omogeneità e indistinzione, non certo variazione o differenza. La rassegna milanese si soffermava proprio su tale sfumatura, di fatto anticipando tendenze postmoderne, indagando una scena artistica in cui iniziavano a comparire con insistenza elementi di citazionismo e anacronismo, come nel caso dei numerosi esempi di sperimentazione pittorica presenti in mostra, volti perlopiù a ridiscutere una tradizione specifica e operare variazioni sul tema a partire da modelli storico artistici chiari e distinti.
Sono passati cinquant’anni esatti e la pittura italiana – tra presunte scomparse e conseguenti ritorni – ha proseguito il suo cammino mutando e articolandosi, ma conservando a mio parere una tendenza alla derivazione e alla citazione, alla ripetizione differente – se in qualche modo si può dare ancora senso alla formula – specialmente nell’ultima generazione di artisti attivi nel nostro paese. Di questa generazione fa parte Lorenzo Modica, la cui ricerca tuttavia percorre una traiettoria diversa, benché non certo solitaria. Ovviamente, non è priva di riferimenti chiari, e in verità numerosi, a ciò che la precede in termini di eredità storica e pittorica: la posta in gioco però non è tanto fare i conti con essa all’interno del quadro, quanto con il quadro in sé e per sé. Vale a dire, fare i conti concretamente con una superficie che diviene campo d’azione e con le possibilità multiformi generate da tale agire. Affrontata da questa prospettiva, la questione della differenza assume toni del tutto peculiari; è un’idea che torna utile, nel leggere il lavoro di Modica, solo se scorporata da referenti esterni e ricondotta non a generiche forme di variazione su temi e modelli, bensì a una dinamica essenziale. Non solo perché – ci torneremo – la ricerca dell’artista è davvero estremamente varia, ma anche in quanto tale eterogeneità sperimentale può esistere solo come manifestazione per immagini dei problemi e delle ipotetiche soluzioni che la superficie pittorica pone in qualità di oggetto.
Se il problema della differenza resta al centro di un possibile discorso sulla pittura di Modica, lo stesso non può dirsi per quello della ripetizione. Al suo posto – a ricostituire una coppia di termini che riecheggia quella di Barilli-Deleuze – entra in gioco, quasi fosse il crocevia di un intero percorso, la negazione. In che senso può una ricerca articolarsi su tale questione? Soltanto, ancora una volta, in riferimento alla pratica della pittura in sé. Intendo dire che laddove un modo di dipingere, o anche un singolo quadro, possono essere immediatamente rappresentativi dell’orientamento complessivo della pratica di chi vi sta dietro, essere dunque affermativi e presentarsi – come è moda dire oggi – in forma di statement, esistono strade parallele e alternative attraverso cui l’opera rifiuta questo genere di forza dichiarativa e piuttosto svia chi la guarda, aprendo a un flusso di stimoli difformi e disomogenei. Un carattere fondamentale della ricerca di Modica è la negazione perentoria della possibilità di inquadrare il proprio lavoro in confini e categorie rigidamente definite. È proprio uno statement, tentativo di autodefinizione della ricerca, che l’artista ha recentemente condiviso con me, a metterlo in evidenza:
Questi dipinti non sono: figurativi, astratti, minimalisti, basati su pattern, dipinti bene, dipinti male, un diario (o intimi), un commento politico (o sociale), una riflessione sulla pittura, la ricerca di un’(onesta) espressione, un catalogo di possibilità, delle visioni, basati sul processo, cinici, basati su impulsi subconsci, mistici.
Sono fatti dei residui e delle rovine (dei relitti e delle scorie) di tutto ciò.1
Queste poche righe bastano a confermare nettamente una sensazione già dal principio nitida, quando mi trovo davanti a un quadro di Modica. Non solo il fatto di dovermi confrontare con un genere di pittura che non si fa imbrigliare in immediate categorizzazioni – una pittura difficile, nel miglior senso che la parola può offrire – ma soprattutto la sensazione di percepire quella stessa forma di residualità a cui l’artista allude. Al cuore dell’opera risiede l’intersezione di molteplici prospettive, tentativi di costruire un’immagine. Nessuna pretesa di limpidezza, ogni intervento sulla superficie pittorica potrebbe esser visto come l’inizio di un quadro a sé, su cui Modica riflette e interviene nuovamente cancellando, enfatizzando, giustapponendo elementi, rendendo visibili pentimenti, giocando deliberatamente su apparizione e sparizione della figura.
Pare davvero che la ricerca dell’artista prenda corpo attraverso una sommatoria di negazioni, di possibilità messe al vaglio: il quadro ne è la sintesi – o il residuo, che dir si voglia. La pittura finisce per collidere con il suo stesso farsi, con una inevitabile processualità resa esplicita, o quantomeno intuibile, senza tuttavia diventare fino in fondo una cifra, un elemento affermativo. Negazione di prospettive univoche e conseguente enfatizzazione del processo conducono, all’interno del quadro, a soluzioni estremamente differenti, talvolta al punto di portare la pittura fuori dai suoi confini più convenzionali. È ciò che ho pensato incontrando per la prima volta il lavoro di Modica, in una mostra di circa tre anni fa; i due lavori per me più significativi indagavano con grande lucidità il ruolo del supporto – in quel caso, in luogo della tela, rispettivamente una tovaglia decorata con un motivo di stelle e del plexiglass – e la sua centralità nell’economia dell’opera, facendo emergere la natura oggettuale, spesso rimossa, di ogni dipinto. Anche in lavori più recenti Modica non rinuncia a interrogarsi sulla materialità del quadro, a partire dalla sua superficie. In Intrusive Sunsets (2023) assistiamo per certi versi a un suo paradossale raddoppiamento; la tela è realizzata riutilizzando il tessuto di un banner pubblicitario del marchio di automobili Kia (ne intravediamo il logo in alto a sinistra, sotto alla figura di un giocatore di baseball), intelaiato e cucito in modo da formare la stratificazione di due superfici. Attraverso tre netti squarci possiamo vedere la decorazione originaria, in forte contrasto cromatico con l’intervento pittorico soprastante, dove coesistono forme abbozzate, segni di spray e una campitura nera che occupa una vasta porzione del dipinto. È un lavoro che dice molto della pratica di Modica, non solo per la già citata questione del supporto: rivela un’attitudine pittorica multiforme – quel tentativo di far coesistere prospettive differenti – e, a partire dal titolo, chiama in causa il tema del paesaggio, a cui l’artista ha sempre dedicato particolare attenzione. Che i tramonti menzionati ci siano o meno, non è poi così rilevante. Certo, il segmento rosso al centro pare proprio evocarne uno; magari, suggeriva un amico pittore che con me ha visto questo quadro, un tramonto visto da un guidatore che si allontana da un paesaggio urbano, da cui questa tela in fondo deriva. Ciò che mi incuriosisce maggiormente, invece, è pensare che “l’intrusione” a cui il titolo allude si riferisca alla pittura stessa laddove, fisicamente e simbolicamente, non dovrebbe stare – sull’oggetto trovato, sullo scarto – e che un’immagine possa essere evocata per vie traverse, mostrandosi allo sguardo come un imprevisto.
Negli ultimi lavori di Modica, la negazione di un approccio pittorico univoco appare ormai chiara. Vi si lega, lo ricordavo, una conseguente differenziazione, alle volte vertiginosa, dei modi di concepire il quadro, sia materialmente che come dispositivo estetico e narrativo. Una dinamica che si accentua – per quanto ovvio e naturale possa essere agli occhi di un pittore – in maniera direttamente proporzionale alla riduzione del formato. Lo testimonia una ricca serie di piccoli dipinti: si alternano supporti di tela o cartone, mutano attitudine e intento, emergono lavori eterogenei in cui oscillano impulsi a un’astrazione quasi color field e abbozzi di ironica figurazione (Italy in form of a tree (yeah ok), 2022), esperimenti energicamente gestuali (Mountain top, 2022) e immagini totalmente distanti in senso compositivo e significativo (And, 2022). Quest’ultima gioca – questa volta in una chiave più metaforica – ancora sul rapporto tra quadro e oggetto. Al centro di una campitura marrone tenue che, insieme ad altri tre interventi cromatici, si sovrappone a un fondo chiaro, vediamo una maniglia e, poco più in basso a destra, il meccanismo di una serratura. Elementi di una porta immaginaria, sono raffigurati in maniera essenziale ma precisa, quasi fossero frutto della mano di un illustratore ma degli strumenti di un pittore. Mi viene in mente un curioso passaggio di un libro di Alva Noë: «Di fronte a una maniglia non ci chiediamo mai: che cos’è? La domanda sorgerebbe solo nel caso in cui la sua utilità fosse già stata messa in discussione. Se la notassi, probabilmente significherebbe che è il risultato di un cattivo design. L’arte, però, è design fatto male di proposito; il suo obiettivo è richiamare l’attenzione solo su se stessa»2. Ironicamente, qui occorre chiedersi che cosa sia questa maniglia, a che cosa possa alludere. Ma se è vero che l’arte deve richiamare l’attenzione a sé – aggiungo, specialmente la pittura – la risposta non può che essere una tautologia: il riferimento è al quadro stesso, a chi lo guarda, a chi lo ha fatto. Dipingere e vedere hanno molto più a che fare con corporeità e tattilità di quanto si pensi; il corpo dell’artista è al centro dell’opera, e forse non è un caso che il suo titolo, l’inglese And, riverberi proprio la parola hand, mano.
Una forma di riferimento aptico, una sorta di stimolo a toccare, è presente in Duckland (2022), sulla cui tela compare una disordinata costellazione di pietruzze – resti di colore secco, un piccolo frammento di studio precipitato nel quadro – che siamo tentati di scandagliare più con i polpastrelli che con gli occhi; tutto intorno, ancora, un fondo monocromo e una serie di interventi pittorici a olio e spray. Tra questi, sulla diagonale bassa del dipinto, un tracciato ondulatorio ricorda un percorso incerto che si assottiglia fino a scomparire. È un motivo che ricorre da qualche tempo, in vesti diverse, nei lavori di Modica; come elemento centrale caratterizzante la composizione (Untitled (the road), 2022), oppure come dettaglio o contrappunto visivo. In L’attesa (2023) vediamo l’abbozzo della stessa stradina in due segni sbiaditi sul fondo destro dell’opera: conducono il nostro sguardo verso un rettangolo rosa, dandogli una centralità che altrimenti non avrebbe, elevandolo al ruolo di quasi-figura in un lavoro deliberatamente astratto nella sua interezza. È un’ulteriore prova che i quadri di Lorenzo Modica si affermino per negazione e proliferino secondo differenza, e lo stesso vale per Profile of a young girl (2022). Il titolo, contrariamente a tanti altri, non concede grandi margini immaginativi e comunica una precisa intenzione rappresentativa. Vediamo il ritratto di una giovane di profilo, certo, ma il taglio ravvicinato e il modo in cui occupa la superficie della tela lasciano più di qualche dubbio. La texture e la resa dei capelli in sfumature di toni simili, da un lato, portano la pittura dell’artista in una direzione piuttosto inedita; se però ci concentriamo, dall’altro, su questi elementi denotativi nell’economia del dispositivo estetico che chiamiamo quadro, ecco che tornano ad assomigliare a campiture che ne coprono altre, lasciando vedere singole porzioni di superficie. Viene davvero da chiedersi se, nell’eterogeneità radicale della ricerca di Modica, un ritratto semplice e leggibile possa, anche solo in un colpo d’occhio, trasformarsi in cancellatura.
Enrico Camprini
1. Lorenzo Modica, Statement redatto in lingua Inglese, tradotto per l’occasione, 2023
2. A. Noë, Strani strumenti. L’arte e la natura umana, trad. it., Torino, Einaudi, 2022, p. 118.